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Oltre il 20% degli studenti universitari italiani abbandona l’università o cambia facoltà entro i primi due anni (dati AlmaLaurea); non solo, ma secondo i dati Eurostat in Italia solo il 27.8% dei giovani under 35 risulta laureato, un dato migliore solo di quello della Romania e ben al di sotto della media Ue (40%) e della performance dei nostri principali competitor (il Regno Unito raggiunge il 48.8%, la Francia il 46.2%, la Spagna il 42.4%, la Germania il 34.9%).

Già da queste prime statistiche risulta evidente come l’orientamento in uscita delle scuole superiori debba e possa giocare un ruolo più attivo e più qualificato nell’indirizzare le scelte dei ragazzi. Il quadro però diventa ancora più nitido prendendo in considerazione anche altri dati.

 

Il primo dato a cui facciamo riferimento, basato sui dati Eurostat rielaborati da LeNius.it, è quello dei NEET, da cui si evince il triste primato italiano. NEET è un acronimo riferito ai giovani under 30 utilizzato per la prima volta nel 1999 dal governo del Regno Unito in un suo report ufficiale e sta per “Not in Education, Employment or Training”: in italianio si traduce quindi “Non attivi né in instruzione, né in lavoro, né in formazione”. Si riferisce dunque a tutti quei giovani che contemporaneamente non hanno un lavoro, non stanno studiando e non stanno facendo formazione professionale. I dati italiani sono impietosi. Il nostro 24% è quasi il doppio del dato di Francia e Regno Unito, quasi quattro volte quello tedesco ed è abbondantemente superiore persino a quello spagnolo. Di questi NEET, secondo il rapporto ISTAT riferito al 2021 (ultimo anno disponibile), oltre il 51% è alla ricerca di un lavoro da almeno un anno. Interessante è anche l’alta percentuale di NEET tra i diplomati (21%) e laureati (21.9%, contro l’11.6% della Francia, il 6.7% della Germania e il 4.6% dell’Olanda). Dati emblematici, che mettono in risalto un evidente mismatch tra preparazione dei ragazzi e competenze richieste dalle aziende.

Un altro dato a nostro avviso importante è questo, riguardante gli ITS (Istituti Tecnologici Superiori). IL MIUR definisce gli ITS come “il segmento di formazione terziaria non universitaria che risponde alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche per promuovere i processi di innovazione”. Gli ITS si differenziano dall’università per la durata inferiore (4 o 6 semestri), per la specificità della formazione e per il forte legame con le imprese del territorio (il 50% circa del corpo docente proviene dal mondo del lavoro ed un intero semestre è dedicato ad un tirocinio aziendale). Dal grafico in esame si evince che gli studenti diplomati ITS hanno un’occupazione post diploma altissima e quasi sempre coerente con il percorso di studi (la gran parte viene assunta dalle aziende partner), ma anche lo scarso numero di iscritti (oggi sono 15.000), a fronte però di oltre 120 ITS attivi sul territorio nazionale (di cui 20 solo in Lombardia) e dei numeri nettamente superiori degli altri principali paesi UE (gli iscritti agli ITS sono 750 mila in Germania, 530 mila in Francia, 400 mila in Spagna e 270mila nel Regno Unito). Insomma: gli ITS funzionano alla grande e rappresentano il fiore all’occhiello dell’idea di sinergia tra scuola, imprese e territorio, ma sono poco frequentati, e questo non per la carenza di offerta sul territorio ma per l’ancora scarsa conoscenza dell’istituto, che in troppi casi viene visto come una specie di alternativa meno nobile dell’università. È quindi evidente il ruolo che potrebbe giocare per invertire il trend un orientamento in uscita diversamente organizzato, non proteso solo all’università ma anche agli ITS e portato avanti in un clima di dialogo con le imprese.

Consideriamo infine due dati di rilievo questa volta più sociologico.

Dato della natalità in Unione Europea (contando anche il Regno Unito). L’Italia è fanalino di coda (nel 2021, ultimo anno disponibile, con 400.000 nascite abbiamo toccato il punto più basso dall’Unità ad oggi), seguita solo da Spagna e Malta. I paesi con il più alto tasso di natalità sono Francia (1.83 figli per donna), Danimarca, Svezia e Regno Unito (tra 1.70 e 1.65)

Età media dell’uscita di casa in Unione Europea. Tra i paesi economicamente più avanzati l’Italia è fanalino di cosa con 30.1 anni, preceduta dalla Spagna con 29.5. Spiccano i paesi scandinavi e i competitor dell’Italia: Francia 23.6, Germania 23.7 e Regno Unito 24.6

 

Da questi dati Eurostat emerge plasticamente la correlazione tra natalità (uno dei problemi strutturali più gravi del nostro Paese) ed uscita di casa dei giovani. In Italia i giovani escono di casa tardi perché a loro volta entrano più tardi nel mondo del lavoro (e con stipendi generalmente al di sotto della media europea) e l’uscita così posticipata si riflette sui dati sempre più critici del nostro inverno demografico. Ecco quindi che l’orientamento in uscita assume ancora più rilevanza: in uno dei pochi paesi dove la scuola superiore dura 5 anni e dove le facoltà una volta quadriennali sono state quasi tutte trasformate in cicli 3+2 (con doppia tesi di laurea) fare la scelta giusta alla fine delle superiori, nell’ottica di un’entrata rapida e ben retribuita nel mondo del lavoro, diventa ancora più importante, così come diventa più pesante sbagliare questa scelta.

 

Conclusioni

Al termine di questa riflessione possiamo trarre alcune conclusioni. L’orientamento alla fine delle scuole superiori assume, almeno potenzialmente, una rilevanza sempre più centrale per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, con riflessi di natura economica, occupazionale e sociale. Alla luce di questa importanza sarebbe auspicabile una revisione della sua organizzazione, prevedendo l’istituzione di un vero e proprio programma nazionale (oggi invece le attività di orientamento dipendono dall’attitudine dei singoli insegnanti) a cui siano dedicate ore settimanali nel piano di studi dell’ultimo e del penultimo anno di scuola (il focus dell’anno terminale di studi dovrebbe divenire l’orientamento, non più l’esame di maturità, da ripensare). Questo programma, a differenza dell’approccio attuale che concepisce l’orientamento (almeno nei licei) esclusivamente come orientamento universitario, dovrebbe aprire le attività di orientamento anche agli ITS e al contributo delle imprese del territorio, per favorire un ingresso dei giovani nel mondo del lavoro più rapido e proficuo, contribuendo a superare il mismatch tra competenze dei ragazzi e competenze richieste dalle aziende.

Riprenderemo questi spunti alla tavola rotonda del 14 marzo dedicata all’orientamento organizzata dall’Istituto Mattei di Rho, un’iniziativa che ha il pregio di mettere finalmente allo stesso tavolo insegnanti, professionisti ed imprenditori.