Se oggi Fiera Milano, e MIND, si trovano nell’attuale area di Rho-Pero lo si deve innanzitutto a chi avviò quel percorso. Riapriamo allora la nostra Finestra su MIND con Piero Borghini, il Sindaco di Milano che nel 1992 prese la storica decisione di spostare la Fiera “fuori Milano” e che oggi continua ad occuparsi della sua e nostra città come vicepresidente del Centro Studi Grande Milano.

Il dottor Piero Borghini, già Sindaco di Milano dal 1992 al 1993 ed attualmente vice presidente del Centro Studi Grande Milano
Dottor Borghini, Lei è il Sindaco che nel 1992 stabilì lo spostamento di Fiera Milano nell’area di Rho-Pero. Oggi, a distanza di 30 anni, rifarebbe quella scelta?
Certamente. È una decisione che ricordo con grande orgoglio, una decisione che definirei capitale. Sì, perché una decisione così a Milano si prende quasi ogni 100 anni. Il precedente spostamento della Fiera, su impulso di un gruppo di imprenditori, avvenne infatti nel 1923, quando l’allora Fiera Campionaria fu trasferita dai bastioni di Porta Venezia al Campo Marte, cioè l’area racchiusa tra piazza Giulio Cesare e Largo Domodossola. Non solo, ma mi si consenta di ricordare che fu anche una decisione coraggiosa, presa resistendo a forti pressioni (di chi voleva spostare la Fiera a Milano Sud anziché a Rho-Pero) ed in un contesto difficilissimo per Milano: eravamo in piena tempesta Tangentopoli ed in Consiglio Comunale avevamo un solo voto di maggioranza. Fu infine anche una decisione di ampia portata culturale perché “cultura” a mio avviso significa sapere dove andare ed il perché.

La vecchia Fiera negli anni ’20, nell’area delimitata dagli alberi
Perchè la giunta da Lei guidata ritenne che fosse arrivato il momento di spostare la Fiera?
La Fiera ha sempre avuto una funzione precisa: essere uno strumento per la politica industriale del Paese e la modernizzazione dell’economia, una funzione che la Fiera ha sempre svolto con estrema efficacia e puntualità. Negli anni ’20 e ‘30 ha dovuto occuparsi della ricostruzione post-bellica e della prima grande ondata di industrializzazione italiana; negli anni ’50 e ’60, gli anni della seconda grande ricostruzione, la Fiera fu vetrina del boom economico e della trasformazione industriale del Paese. Gli anni ‘70 e ‘80 furono invece i decenni della grande ristrutturazione industriale, basti pensare che nella sola siderurgia perdemmo 100.000 posti di lavoro, ma senza quasi accorgercene, perché altrettanti posti di lavoro furono creati in altri settori, e cioè le attività commerciali e dei servizi. La Fiera, in quei due decenni cruciali, è stata lo strumento che ha letteralmente accompagnato questo processo di profonda trasformazione (pensiamo alla nascita del Salone del Mobile e delle grandi mostre della moda).

Veduta della Fiera campionaria negli anni ’60. Al centro il palazzo del Centro internazionale degli scambi
Arriviamo così agli anni ‘90, agli albori dei quali noi prendemmo quella decisione. Perché lo abbiamo fatto? Certamente perché la Fiera era ormai un’area troppo piccola, direi quasi “militare”, recintata, poco aperta al pubblico e nei fatti direi sconosciuta ai milanesi; ma soprattutto perché la Fiera, ancora una volta doveva assumere una nuova funzione, ossia diventare lo strumento dello sviluppo della Milano capitale dell’economia del terziario avanzato e soprattutto capitale della conoscenza, e per assumere questa nuova funzione era necessario cambiare totalmente la Fiera, rinnovando anche la sua collocazione. Ecco perché lo spostamento della Fiera lo vedo anche come la dimostrazione di una delle doti più importanti che ha Milano, e cioè il saper cambiare, anche radicalmente, le cose quando non vanno più bene, quando non sono più funzionali o al passo coi tempi. Milano ha saputo passare dall’industria all’economia del terziario avanzato, ed ora all’economia della conoscenza, mutando l’urbanistica e le connotazioni della città, riorganizzando i servizi ed adeguandosi alle nuove esigenze.
Cosa vi convinse a spostare la Fiera fuori Milano e nella fattispecie a Rho-Pero?
Mi piace rispondere a questa domanda, cominciando con una citazione della grande sociologa Saskia Sassen, la quale sostiene che “le città vanno pensate al plurale”. Milano è un grande arcipelago di isole, non una città stato. Milano esiste, è ricca, si sviluppa ed è potente perché attorno ha la sua area metropolitana e la Brianza: altrimenti Milano sarebbe povera, una città medio-piccola di scarso significato. Invece Milano è quella potenza che è perché è il capoluogo, perché è il cuore, di una grande area metropolitana, la terza economicamente e socialmente più importante d’Europa e la seconda dell’UE, dopo Londra e poco dopo Parigi. È l’area metropolitana che contraddistingue Milano, non l’area cittadina, che se ci pensiamo bene è grande praticamente come Lione… Milano è questa realtà, e Rho-Pero ne è il baricentro. Sì, il baricentro, perché il centro di Milano è il Duomo, ma il suo baricentro, e cioè il centro funzionale al modo di essere dell’economia milanese, non è il Duomo, né City Life, ma è diventato proprio Rho-Pero. Questa è l’ottica dello sposamento della Fiera, uno spostamento che altrimenti non si può comprendere nella sua interezza.
Come si colloca in questa visione di Milano il progetto MIND?
Come abbiamo appena detto, l’economia della conoscenza è la vera essenza della Milano di oggi. MIND al tempo stesso si inserisce in quest’ottica e ne è la prova. MIND infatti si è insediato in Fiera non perché a Milano era disponibile una generica grande area, ma perché Milano è la capitale dell’economia della conoscenza, che non è fatta solo delle sue punte di diamante, e cioè le università ed i centri di ricerca, ma è composta anche da tutta l’enorme quantità di lavoratori che traggono da Milano e dall’area metropolitana il motivo del loro lavoro: pensiamo ai designer, agli organizzatori di eventi, agli addetti alla comunicazione, tutti professionisti che non lavorano per la fabbrica X o per l’azienda Y, ma per l’economia della conoscenza dell’area metropolitana. MIND è inoltre perfettamente funzionale alla nuova missione delle fiere contemporanee, che non è più mostrare semplicemente i prodotti, ma mostrare i processi innovativi da cui quei prodotti derivano.

Il progetto MIND (Milano Innovation District)
La Città Metropolitana ha sostituito la Provincia con lo scopo anche di superare la distinzione fra città capoluogo e cintura, andando proprio nella direzione da Lei auspicata. Tuttavia, soprattutto se pensiamo alla mobilità e alle politiche abitative, si ha l’impressione che le decisioni assunte, anziché orientate ad armonizzare, alimentino ulteriormente la separazione. Quali limiti sta dimostrando il rapporto istituzionale e politico interno alla Città Metropolitana?
Qui torniamo ancora una volta alla concezione di Milano da identificare con la sua area metropolitana ed alle città da pensare al plurale di Saskia Sassen. Se pensassimo a Milano come la città dentro la cerchia dei navigli dovremmo definire Milano una città internazionale di enorme successo, che attrae investimenti enormi ed enormi talenti. Allargando però lo sguardo alle altre Milano, e cioè all’area metropolitana, intesa come realtà produttiva, notiamo punti di sofferenza importanti. Milano non può chiudersi nella bolla, perché di bolla si tratta, del successo del suo centro, ma deve prendere atto di tutte le difficoltà dell’area metropolitana e, anziché acuirle, contribuire a risolvere. Per esempio l’Area B non è un tema milanese, ma di area metropolitana, e quindi va affrontato e risolto d’accordo con l’area metropolitana, non in conflitto con essa. Anche le politiche della casa devono essere pensate in un’ottica metropolitana. Come ho avuto modo di ripetere sia al Presidente Fontana che al Sindaco Sala, Regione e Città Metropolitana dovrebbero redigere un grande piano di social housing a dimensione metropolitana, collaborando insieme ed andando oltre le appartenenze partitiche (non c’è una conflittualità inevitabile!). Solo così si può risolvere il problema della casa, di pari passo con il problema della mobilità. Saskia Sassen parlava di “diritto alla città, al di là di dove viviamo”: non importa se vivo a Milano centro, in periferia, in un comune della cintura o in un borgo meraviglioso dell’area metropolitana. Nel nostro caso, ovunque io viva devo godere della stessa qualità urbana e della vita che c’è nel centro di Milano: devo avere un’architettura piacevole, servizi efficienti, connessioni funzionali, socialità, cultura ed ovviamente lavoro.
Chiudiamo toccando un tema che come Studio ci sta particolarmente a cuore: il rapporto tra imprese e Pubblica Amministrazione. Basandosi sulla sua non comune esperienza, è d’accordo con la nostra impressione di un diffuso sentimento anti-impresa in certi settori della PA, una diffidenza che si riflette non solo in atteggiamenti spesso diffidenti verso l’imprenditore ma anche nel coacervo di regole e burocrazia record a cui le nostre imprese sono sottoposte?
Ha assolutamente ragione, ed in particolare in questo momento stiamo assistendo ad un’ondata neo-statalista che spero non dilaghi. Ovunque le realtà di maggior successo sono frutto di una cooperazione tra pubblico e privato. Delle enormi potenzialità di questa collaborazione Milano ne è un mirabile esempio (pensiamo alle fondazioni culturali, ad almeno la metà dei nostri musei, alla sanità, a tutti i grandi progetti di sviluppo urbanistico, compreso MIND). La collaborazione tra pubblico e privato è l’unica strada da percorrere per il futuro, una strada da percorrere anche volentieri, essendo tipicamente milanese. Per fare questo, e per superare anche le sacche di diffidenza verso l’impresa che persistono in una certa PA, occorre “capacitare le istituzioni”. Bisogna cioè dotare regioni e comuni di personale all’altezza dei grandi problemi e delle grandi sfide che dobbiamo affrontare. Non si tratta di assumere nuove figure, ma di definire una qualità superiore dei dipendenti comunali (pagandoli di più). La soluzione non sono le assunzioni da fuori, ma un’opera di formazione, una formazione radicale, continua ed aperta perennemente alle nuove competenze.