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ITS LAINATE, PARLANO GLI STUDENTI: TESTIMONIANZA DI GABRIELE PRIMAVERA

Dopo quattro anni è possibile cominciare a delineare un primo bilancio dell’attività dell’ITS Lainate, che Studio Muliari ha contribuito a creare e che sostiene sin dalla sua fondazione. Nel 2021 e nel 2022 sono infatti terminati i primi due cicli biennali di corsi (2019-2021, 2020-2022), che hanno portato con sé dei dati assai significativi sul coinvolgimento attivo delle aziende (il numero di aziende partner ha superato le 30 unità ed oltre 800 ore di lezione su 1140 sono oggi tenute da professionisti provenienti dal mondo del lavoro)  e sulla percentuale, intorno al 90%, di studenti che, al termine di questa esperienza, trovano un impiego collegato al percorso di studi (nel 55 % dei casi addirittura presso l’azienda in cui hanno svolto lo stage). Oltre ai numeri, però, abbiamo pensato di raccogliere le testimonianze dei protagonisti in carne ed ossa, studenti e studentesse, che pubblicheremo da qui alla pausa estiva. 

Cominciamo con il racconto di Gabriele Primavera, ragazzo di 22 anni, diplomato ITS del primo corso in assoluto (2019-2021).

Il giovane Gabriele Primavera, 22 anni

Faccio parte degli studenti del primo ciclo in assoluto dell’ITS Lainate, quello del biennio 2019-2021. Quindi, quando 4 anni fa scelsi di iscrivermi non c’erano precedenti o altri ragazzi che potessero suffragare la mia decisione raccontandomi la loro esperienza diretta. Un po’ per istinto, un po’ riflettendo, mi fidai dell’ottima impressione che mi aveva fatto il professor Luca, quando in primavera aveva presentato al Cannizzaro (l’istituto dove mi sono diplomato) il nascente ITS. Con il senno di poi posso dire di aver fatto la scelta giusta, perché l’ITS si è rivelata un’esperienza fondamentale, che ancora oggi ha un impatto sulla mia vita. Nel primo anno e mezzo, e cioè il periodo dedicato alle lezioni in aula, dove abbiamo studiato materie ed argomenti non affrontati a scuola, avevamo come docenti tanti professionisti provenienti dalle imprese del territorio. Abbiamo così avuto l’opportunità di interfacciarci direttamente con il mondo delle aziende e grazie a questi docenti-professionisti ho cominciato a capire come davvero sono strutturate le industrie oggi: prima non ne avevo idea, perché l’immagine che ci davano a scuola era che l’azienda chimica coincidesse essenzialmente con il suo laboratorio, quando invece c’è tutto un mondo da scoprire (uffici, customer service, servizio vendita, il quale offre molte opportunità…). Ancora più importante è stato per me lo stage di fine corso, uno stage molto diverso da quelli dell’alternanza scuola-lavoro tipici delle superiori: dura 6 mesi e ti dà davvero l’opportunità di toccare con mando la realtà del mondo del lavoro, di imparare qualcosa e di entrare sul serio nelle dinamiche aziendali. E la prova è che alla fine di quei sei mesi, come tanti altri miei compagni, l’azienda presso la quale avevo completato lo stage, la Italmatch Chemicals di Arese, mi ha offerto un contratto di assunzione a tempo determinato (6 mesi), al termine del quale sono stato assunto a tempo indeterminato. Da questa mia esperienza personale si deduce anche che il collegamento tra ITS e aziende non è un luogo comune, ma una comprovata realtà. Non posso quindi non consigliare l’ITS ai miei più giovani colleghi prossimi al diploma interessati a lavorare nel mondo della chimica o in uno ad esso affine. L’ITS non solo ti offre una formazione sempre al passo con i tempi e le esigenze delle aziende, ma può essere l’ideale anche per chi è indeciso tra università e mondo del lavoro subito: l’ITS, infatti, consente anche di iscriverti all’Università a partire dal terzo ed ultimo anno del percorso di laurea, in quanto il biennio dell’ITS vale 120 CFU, esattamente come il primo biennio in qualsiasi ateneo. 

Gabriele Primavera

“VERSO IL FUTURO”: UN NUOVO INIZIO TRA SCUOLA ED IMPRESA?

L’evento del Mattei dello scorso 14 marzo rappresenterà davvero, per lo meno sul nostro territorio, l’inizio di un nuovo e più proficuo rapporto tra scuola e impresa? Lo scopriremo solo vivendo, come cantava il grande Lucio Battisti. Per ora vogliamo cogliere come un ottimo segnale questa iniziativa perché per la prima volta ha messo allo stesso tavolo questi due mondi, facendo intervenire all’incontro sia i rappresentati della scuola che quelli delle imprese del territorio (qui il programma della mattinata con i relatori presenti).

Tavola rotonda, il momento delle imprese. Da sinistra: Marco Delaini, Mila Tinkova, Giancarlo Muliari e Laura Di Carpegna

 

Da questo confronto sono emersi diversi spunti su come migliorare l’organizzazione dell’orientamento, sia in entrata che in uscita dalle scuole superiori, che possiamo così sintetizzare: 

-iniziare le attività di orientamento fin dalla metà del percorso della scuola media; 

-passare dal “fatti guidare dalle tue passioni” al “l’orientamento può guidare le tue passioni e scoprirle”; 

-coinvolgere sempre anche le famiglie nelle attività di orientamento perché il panorama del mondo del lavoro è diverso rispetto a quelli di 30 anni fa e spesso non solo i ragazzi, ma anche ed innanzitutto le famiglie non hanno questa consapevolezza 

-oltre alle famiglie cominciare a coinvolgere davvero, ed in modo permanente, anche le imprese. In quest’occa lo Studio Muliari ha rilanciato l’idea dell’Osservatorio territoriale socio-economico, di cui parliamo diffusamente ne “lo spunto del mese” di questo numero (qui l’articolo). 

E proprio nella direzione dei punti appena evidenziati va certamente la piattaforma “Verso il Futuro”, presentata nella prima parte della mattinata dalla professoressa Marisa Schiavo, referente, con le colleghe Alice Piovani, Giuseppina Romeo ed il collega Stefano Monteleone delle attività progettuali del Mattei. La piattaforma infatti consiste in una raccolta di brevi video-pillola, da 2-3 minuti, in cui portare all’attenzione degli studenti contenuti formativi ed informativi inerenti all’orientamento; un buon numero di queste testimonianze arriveranno da imprenditori e professionisti, che spiegheranno ai ragazzi quali sono le competenze richieste oggi dalle aziende e come si stanno evolvendo le rispettive professioni in un’epoca di trasformazioni continue e veloci. 

ORIENTAMENTO: QUALE CONTRIBUTO DALLE IMPRESE?

Il contributo che le aziende possono dare per favorire nei giovani scelte professionali e di studio consapevoli è determinante. Eppure permane un notevole distacco tra il sistema delle imprese e quello della formazione.

Una prima ragione è da ricercare nella visione dell’orientamento come attività istituzionale delle scuole, che vede il coinvolgimento delle imprese su base volontaria e facoltativa. Ciò spiega la scarsa efficacia delle azioni messe in campo, pur con fatica ed impegno, per individuare adeguati percorsi di orientamento nelle scuole di ogni ordine e grado. Le imprese dunque devono avere un ruolo più centrale in questo percorso di orientamento, che d’altra parte le stesse linee guida del ministero definiscono come “il processo volto a  facilitare non solo la conoscenza di sé ma anche del contesto occupazionale, sociale ed economico di riferimento”. Per farlo, per comprendere le trasformazioni che stiamo vivendo e che impattano sulle professioni di oggi e di domani occorre alimentare una rete territoriale e quindi non si può prescindere dal contributo delle imprese, sia individualmente che in forma aggregata, delle associazioni di categoria e dei relativi centri studi. Maggiore è il livello di conoscenza e consapevolezza di questo contesto più facile e mirata è la scelta professionale e formativa a qualsiasi livello. Conoscere per decidere, qualcuno diceva.

Gli imprenditori lamentano anche un peggioramento negli ultimi anni della qualità della formazione tecnica e professionale, tanto che la distanza tra sistema formativo e imprese è inserita ai primi posti tra i fattori che frenano la competitività del paese. È utile comprendere l’origine del mismatch di competenze. Negli ultimi 25 anni il  sistema manifatturiero ha subito una forte evoluzione come reazione ad alcuni shock esterni, in primis la concorrenza asimmetrica dei paesi emergenti, in particolare asiatici. Basti pensare che tra il 1995 e il 2010 l’industria ha perso 470 mila occupati, l’80% dei quali nel solo settore del tessile-abbigliamento- calzature, spiazzato proprio dai prodotti e più basso valore unitario provenienti da questi paesi. L’industria ha saputo reagire spostandosi sempre più dai settori tradizionali a quelli più avanzati e differenziati. Per esempio nel settore delle macchine e apparecchi  e dei prodotti in metallo la crescita è stata impressionante. Di fronte a questo processo di modernizzazione ed evoluzione tecnologica delle produzioni, l’offerta formativa non si è allineata in maniera adeguataIn Germania , la patria del sistema duale, la disoccupazione giovanile è sotto al 6% perché le imprese sono perno della formazione e co-progettano le attività di apprendimento. Come avviene negli ITS Academy italiani che però hanno numeri ancora di nicchia. In ogni caso, per le imprese manifatturiere il modello didattico proposto dai centri di formazione professionale (sul nostro territorio abbiamo delle vere e proprie eccellenze come i Salesiani di Arese) in  cui alle imprese si chiede un coinvolgimento attivo nella didattica, non è formazione di serie B ma anzi è un modello da valorizzare. Si registra un progressivo declino, tra i giovani, del valore sociale del lavoro manuale e una della ragioni è che i giovani conoscono ben poco dell’industria. Al termine industria molti giovani associano i termini obsoleto e sfruttamento. L’Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa, ma, evidentemente, serve un modo nuovo di raccontarlo, partendo dalle scuole. Sotto questo profilo si può comprendere quanto sia importante il contributo delle imprese nell’attività di orientamento, per fornire elementi di conoscenza sull’industria di oggi, perché la conoscenza facilita la scelta.

Si stima che saranno necessari tra il 2023 e il 2026 quattro milioni di lavoratori con competenze green di alto e medio profilo. Esistono analisi provenienti da vari ambiti che possono essere di grade ausilio nell’attività di orientamento e prima ancora nell’aggiornamento dell’offerta formativa. Bisogna trovare luoghi di confronto e condivisione. Serve dunque a monte un maggior raccordo fra sistema produttivo e formativo, più organico e sistematico. Una proposta che è stata fatta in altri ambiti e che si può riproporre su questo tema così importante, è quella di istituire un osservatorio che possa offrire occasioni permanenti di condivisione di dati e analisi, attingendo dalle fonti già disponibili. L’osservatorio potrà aiutare a comprendere le trasformazioni che stiamo vivendo e che impattano sulle professioni di oggi e di domani, ed  essere così di supporto all’aggiornamento dell’offerta formativa e alla scelta del percorso di studi e professionale più adeguato alle proprie attitudini, ma anche al contesto di riferimento.   

Giancarlo Muliari

DIALOGO SCUOLA-IMPRESE: QUALCOSA SI MUOVE DAVVERO?

Il prossimo 14 marzo avrà luogo all’Istituto Enrico Mattei di Rho l’incontro “Verso il futuro- Una piattaforma per orientarsi”, dedicato appunto all’orientamento in entrata e in uscita dalle scuole superiori. Come da programma, la mattinata sarà divisa in due parti: la presentazione della piattaforma ed una tavola rotonda sull’orientamento, focalizzata sul territorio del rhodense.

Lo Studio, che sarà presente con Giancarlo Muliari alla tavola rotonda moderata da Emanuela Croci del Corriere della Sera, non può che accogliere positivamente questa iniziativa, che va nella direzione da tempo da noi auspicata, quella di un maggior coinvolgimento delle aziende nei programmi di orientamento, in controtendenza con quanto accaduto finora. Un intento, questo, confermato anche dalla professoressa Marisa Schiavo, referente, con le colleghe Alice Piovani, Giuseppina Romeo ed il collega Stefano Monteleone delle attività progettuali del Mattei: “La piattaforma che lanceremo il prossimo 14 marzo ha nel coinvolgimento delle aziende il suo fiore all’occhiello. La piattaforma infatti consiste in una raccolta di brevi video-pillola, da 2-3 minuti, in cui portare all’attenzione degli studenti contenuti formativi ed informativi inerenti all’orientamento; un gran numero di queste testimonianze arriveranno da imprenditori e professionisti, che spiegheranno ai ragazzi quali sono le competenze richieste oggi dalle aziende e come si stanno evolvendo le rispettive professioni. Anche noi come Mattei riteniamo che le imprese del territorio siano coinvolte ancora troppo poco nei programmi di orientamente e nel nostrio piccolo stiamo da tempo cercando di contribuire a segnare un cambiamento di rotta attraverso un continuo dialogo con le aziende, che lo scorso anno è culminato, anche con l’impulso dato dallo Studio Muliari, nell’Open Day delle imprese proprio qui al Mattei”.

UNA FINESTRA SU MIND: INTERVISTA A PIERO BORGHINI

Se oggi Fiera Milano, e MIND, si trovano nell’attuale area di Rho-Pero lo si deve innanzitutto a chi avviò quel percorso. Riapriamo allora la nostra Finestra su MIND con Piero Borghini, il Sindaco di Milano che nel 1992 prese la storica decisione di spostare la Fiera “fuori Milano” e che oggi continua ad occuparsi della sua e nostra città come vicepresidente del Centro Studi Grande Milano.

Il dottor Piero Borghini, già Sindaco di Milano dal 1992 al 1993 ed attualmente vice presidente del Centro Studi Grande Milano

Dottor Borghini, Lei è il Sindaco che nel 1992 stabilì lo spostamento di Fiera Milano nell’area di Rho-Pero. Oggi, a distanza di 30 anni, rifarebbe quella scelta?  

Certamente. È una decisione che ricordo con grande orgoglio, una decisione che definirei capitale. Sì, perché una decisione così a Milano si prende quasi ogni 100 anni. Il precedente spostamento della Fiera, su impulso di un gruppo di imprenditori, avvenne infatti nel 1923, quando l’allora Fiera Campionaria fu trasferita dai bastioni di Porta Venezia al Campo Marte, cioè l’area racchiusa tra piazza Giulio Cesare e Largo Domodossola. Non solo, ma mi si consenta di ricordare che fu anche una decisione coraggiosa, presa resistendo a forti pressioni (di chi voleva spostare la Fiera a Milano Sud anziché a Rho-Pero) ed in un contesto difficilissimo per Milano: eravamo in piena tempesta Tangentopoli ed in Consiglio Comunale avevamo un solo voto di maggioranza. Fu infine anche una decisione di ampia portata culturale perché “cultura” a mio avviso significa sapere dove andare ed il perché.  

La vecchia Fiera negli anni ’20, nell’area delimitata dagli alberi

Perchè la giunta da Lei guidata ritenne che fosse arrivato il momento di spostare la Fiera? 

La Fiera ha sempre avuto una funzione precisa: essere uno strumento per la politica industriale del Paese e la modernizzazione dell’economia, una funzione che la Fiera ha sempre svolto con estrema efficacia e puntualità. Negli anni ’20 e ‘30 ha dovuto occuparsi della ricostruzione post-bellica e della prima grande ondata di industrializzazione italiana; negli anni ’50 e ’60, gli anni della seconda grande ricostruzione, la Fiera fu vetrina del boom economico e della trasformazione industriale del Paese. Gli anni ‘70 e ‘80 furono invece i decenni della grande ristrutturazione industriale, basti pensare che nella sola siderurgia perdemmo 100.000 posti di lavoro, ma senza quasi accorgercene, perché altrettanti posti di lavoro furono creati in altri settori, e cioè le attività commerciali e dei servizi. La Fiera, in quei due decenni cruciali, è stata lo strumento che ha letteralmente accompagnato questo processo di profonda trasformazione (pensiamo alla nascita del Salone del Mobile e delle grandi mostre della moda).

Veduta della Fiera campionaria negli anni ’60. Al centro il palazzo del Centro internazionale degli scambi

Arriviamo così agli anni ‘90, agli albori dei quali noi prendemmo quella decisione. Perché lo abbiamo fatto?  Certamente perché la Fiera era ormai un’area troppo piccola, direi quasi “militare”, recintata, poco aperta al pubblico e nei fatti direi sconosciuta ai milanesi; ma soprattutto perché la Fiera, ancora una volta doveva assumere una nuova funzione, ossia diventare lo strumento dello sviluppo della Milano capitale dell’economia del terziario avanzato e soprattutto capitale della conoscenza, e per assumere questa nuova funzione era necessario cambiare totalmente la Fiera, rinnovando anche la sua collocazione. Ecco perché lo spostamento della Fiera lo vedo anche come la dimostrazione di una delle doti più importanti che ha Milano, e cioè il saper cambiare, anche radicalmente, le cose quando non vanno più bene, quando non sono più funzionali o al passo coi tempi. Milano ha saputo passare dall’industria all’economia del terziario avanzato, ed ora all’economia della conoscenza, mutando l’urbanistica e le connotazioni della città, riorganizzando i servizi ed adeguandosi alle nuove esigenze.  

Cosa vi convinse a spostare la Fiera fuori Milano e nella fattispecie a Rho-Pero?  

Mi piace rispondere a questa domanda, cominciando con una citazione della grande sociologa Saskia Sassen, la quale sostiene che “le città vanno pensate al plurale”. Milano è un grande arcipelago di isole, non una città stato. Milano esiste, è ricca, si sviluppa ed è potente perché attorno ha la sua area metropolitana e la Brianzaaltrimenti Milano sarebbe povera, una città medio-piccola di scarso significato. Invece Milano è quella potenza che è perché è il capoluogo, perché è il cuore, di una grande area metropolitana, la terza economicamente e socialmente più importante d’Europa e la seconda dell’UE, dopo Londra e poco dopo Parigi. È l’area metropolitana che contraddistingue Milano, non l’area cittadina, che se ci pensiamo bene è grande praticamente come Lione… Milano è questa realtà, e Rho-Pero ne è il baricentro. Sì, il baricentro, perché il centro di Milano è il Duomo, ma il suo baricentro, e cioè il centro funzionale al modo di essere dell’economia milanese, non è il Duomo, né City Life, ma è diventato proprio Rho-Pero. Questa è l’ottica dello sposamento della Fiera, uno spostamento che altrimenti non si può comprendere nella sua interezza. 

Come si colloca in questa visione di Milano il progetto MIND?  

Come abbiamo appena detto, l’economia della conoscenza è la vera essenza della Milano di oggi. MIND al tempo stesso si inserisce in quest’ottica e ne è la prova. MIND infatti si è insediato in Fiera non perché a Milano era disponibile una generica grande area, ma perché Milano è la capitale dell’economia della conoscenza, che non è fatta solo delle sue punte di diamante, e cioè le università ed i centri di ricerca, ma è composta anche da tutta l’enorme quantità di lavoratori che traggono da Milano e dall’area metropolitana il motivo del loro lavoro: pensiamo ai designer, agli organizzatori di eventi, agli addetti alla comunicazione, tutti professionisti che non lavorano per la fabbrica X o per l’azienda Y, ma per l’economia della conoscenza dell’area metropolitana. MIND è inoltre perfettamente funzionale alla nuova missione delle fiere contemporanee, che non è più mostrare semplicemente i prodotti, ma mostrare i processi innovativi da cui quei prodotti derivano. 

Il progetto MIND (Milano Innovation District)

La Città Metropolitana ha sostituito la Provincia con lo scopo anche di superare la distinzione fra città capoluogo e cintura, andando proprio nella direzione da Lei auspicata. Tuttavia, soprattutto se pensiamo alla mobilità e alle politiche abitative, si ha l’impressione che le decisioni assunte, anziché orientate ad armonizzare, alimentino ulteriormente la separazione. Quali limiti sta dimostrando il rapporto istituzionale e politico interno alla Città Metropolitana? 

Qui torniamo ancora una volta alla concezione di Milano da identificare con la sua area metropolitana ed alle città da pensare al plurale di Saskia Sassen. Se pensassimo a Milano come la città dentro la cerchia dei navigli dovremmo definire Milano una città internazionale di enorme successo, che attrae investimenti enormi ed enormi talenti. Allargando però lo sguardo alle altre Milano, e cioè all’area metropolitana, intesa come realtà produttiva, notiamo punti di sofferenza importanti. Milano non può chiudersi nella bolla, perché di bolla si tratta, del successo del suo centro, ma deve prendere atto di tutte le difficoltà dell’area metropolitana e, anziché acuirle, contribuire a risolvere. Per esempio l’Area B non è un tema milanese, ma di area metropolitana, e quindi va affrontato e risolto d’accordo con l’area metropolitana, non in conflitto con essa. Anche le politiche della casa devono essere pensate in un’ottica metropolitana. Come ho avuto modo di ripetere sia al Presidente Fontana che al Sindaco Sala, Regione e Città Metropolitana dovrebbero redigere un grande piano di social housing a dimensione metropolitana, collaborando insieme ed andando oltre le appartenenze partitiche (non c’è una conflittualità inevitabile!). Solo così si può risolvere il problema della casa, di pari passo con il problema della mobilità. Saskia Sassen parlava di “diritto alla città, al di là di dove viviamo”: non importa se vivo a Milano centro, in periferia, in un comune della cintura o in un borgo meraviglioso dell’area metropolitana. Nel nostro caso, ovunque io viva devo godere della stessa qualità urbana e della vita che c’è nel centro di Milano: devo avere un’architettura piacevole, servizi efficienti, connessioni funzionali, socialità, cultura ed ovviamente lavoro.  

Chiudiamo toccando un tema che come Studio ci sta particolarmente a cuore: il rapporto tra imprese e Pubblica Amministrazione. Basandosi sulla sua non comune esperienza, è d’accordo con la nostra impressione di un diffuso sentimento anti-impresa in certi settori della PA, una diffidenza che si riflette non solo in atteggiamenti spesso diffidenti verso l’imprenditore ma anche nel coacervo di regole e burocrazia record a cui le nostre imprese sono sottoposte? 

Ha assolutamente ragione, ed in particolare in questo momento stiamo assistendo ad un’ondata neo-statalista che spero non dilaghi. Ovunque le realtà di maggior successo sono frutto di una cooperazione tra pubblico e privato. Delle enormi potenzialità di questa collaborazione Milano ne è un mirabile esempio (pensiamo alle fondazioni culturali, ad almeno la metà dei nostri musei, alla sanità, a tutti i grandi progetti di sviluppo urbanistico, compreso MIND). La collaborazione tra pubblico e privato è l’unica strada da percorrere per il futuro, una strada da percorrere anche volentieri, essendo tipicamente milanese. Per fare questo, e per superare anche le sacche di diffidenza verso l’impresa che persistono in una certa PA, occorre “capacitare le istituzioni”. Bisogna cioè dotare regioni e comuni di personale all’altezza dei grandi problemi e delle grandi sfide che dobbiamo affrontare. Non si tratta di assumere nuove figure, ma di definire una qualità superiore dei dipendenti comunali (pagandoli di più). La soluzione non sono le assunzioni da fuori, ma un’opera di formazione, una formazione radicale, continua ed aperta perennemente alle nuove competenze. 

LO SPUNTO DEL MESE: UN NUOVO ORIENTAMENTO PER I NOSTRI RAGAZZI

Oltre il 20% degli studenti universitari italiani abbandona l’università o cambia facoltà entro i primi due anni (dati AlmaLaurea); non solo, ma secondo i dati Eurostat in Italia solo il 27.8% dei giovani under 35 risulta laureato, un dato migliore solo di quello della Romania e ben al di sotto della media Ue (40%) e della performance dei nostri principali competitor (il Regno Unito raggiunge il 48.8%, la Francia il 46.2%, la Spagna il 42.4%, la Germania il 34.9%).

Già da queste prime statistiche risulta evidente come l’orientamento in uscita delle scuole superiori debba e possa giocare un ruolo più attivo e più qualificato nell’indirizzare le scelte dei ragazzi. Il quadro però diventa ancora più nitido prendendo in considerazione anche altri dati.

 

Il primo dato a cui facciamo riferimento, basato sui dati Eurostat rielaborati da LeNius.it, è quello dei NEET, da cui si evince il triste primato italiano. NEET è un acronimo riferito ai giovani under 30 utilizzato per la prima volta nel 1999 dal governo del Regno Unito in un suo report ufficiale e sta per “Not in Education, Employment or Training”: in italianio si traduce quindi “Non attivi né in instruzione, né in lavoro, né in formazione”. Si riferisce dunque a tutti quei giovani che contemporaneamente non hanno un lavoro, non stanno studiando e non stanno facendo formazione professionale. I dati italiani sono impietosi. Il nostro 24% è quasi il doppio del dato di Francia e Regno Unito, quasi quattro volte quello tedesco ed è abbondantemente superiore persino a quello spagnolo. Di questi NEET, secondo il rapporto ISTAT riferito al 2021 (ultimo anno disponibile), oltre il 51% è alla ricerca di un lavoro da almeno un anno. Interessante è anche l’alta percentuale di NEET tra i diplomati (21%) e laureati (21.9%, contro l’11.6% della Francia, il 6.7% della Germania e il 4.6% dell’Olanda). Dati emblematici, che mettono in risalto un evidente mismatch tra preparazione dei ragazzi e competenze richieste dalle aziende.

Un altro dato a nostro avviso importante è questo, riguardante gli ITS (Istituti Tecnologici Superiori). IL MIUR definisce gli ITS come “il segmento di formazione terziaria non universitaria che risponde alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche per promuovere i processi di innovazione”. Gli ITS si differenziano dall’università per la durata inferiore (4 o 6 semestri), per la specificità della formazione e per il forte legame con le imprese del territorio (il 50% circa del corpo docente proviene dal mondo del lavoro ed un intero semestre è dedicato ad un tirocinio aziendale). Dal grafico in esame si evince che gli studenti diplomati ITS hanno un’occupazione post diploma altissima e quasi sempre coerente con il percorso di studi (la gran parte viene assunta dalle aziende partner), ma anche lo scarso numero di iscritti (oggi sono 15.000), a fronte però di oltre 120 ITS attivi sul territorio nazionale (di cui 20 solo in Lombardia) e dei numeri nettamente superiori degli altri principali paesi UE (gli iscritti agli ITS sono 750 mila in Germania, 530 mila in Francia, 400 mila in Spagna e 270mila nel Regno Unito). Insomma: gli ITS funzionano alla grande e rappresentano il fiore all’occhiello dell’idea di sinergia tra scuola, imprese e territorio, ma sono poco frequentati, e questo non per la carenza di offerta sul territorio ma per l’ancora scarsa conoscenza dell’istituto, che in troppi casi viene visto come una specie di alternativa meno nobile dell’università. È quindi evidente il ruolo che potrebbe giocare per invertire il trend un orientamento in uscita diversamente organizzato, non proteso solo all’università ma anche agli ITS e portato avanti in un clima di dialogo con le imprese.

Consideriamo infine due dati di rilievo questa volta più sociologico.

Dato della natalità in Unione Europea (contando anche il Regno Unito). L’Italia è fanalino di coda (nel 2021, ultimo anno disponibile, con 400.000 nascite abbiamo toccato il punto più basso dall’Unità ad oggi), seguita solo da Spagna e Malta. I paesi con il più alto tasso di natalità sono Francia (1.83 figli per donna), Danimarca, Svezia e Regno Unito (tra 1.70 e 1.65)

Età media dell’uscita di casa in Unione Europea. Tra i paesi economicamente più avanzati l’Italia è fanalino di cosa con 30.1 anni, preceduta dalla Spagna con 29.5. Spiccano i paesi scandinavi e i competitor dell’Italia: Francia 23.6, Germania 23.7 e Regno Unito 24.6

 

Da questi dati Eurostat emerge plasticamente la correlazione tra natalità (uno dei problemi strutturali più gravi del nostro Paese) ed uscita di casa dei giovani. In Italia i giovani escono di casa tardi perché a loro volta entrano più tardi nel mondo del lavoro (e con stipendi generalmente al di sotto della media europea) e l’uscita così posticipata si riflette sui dati sempre più critici del nostro inverno demografico. Ecco quindi che l’orientamento in uscita assume ancora più rilevanza: in uno dei pochi paesi dove la scuola superiore dura 5 anni e dove le facoltà una volta quadriennali sono state quasi tutte trasformate in cicli 3+2 (con doppia tesi di laurea) fare la scelta giusta alla fine delle superiori, nell’ottica di un’entrata rapida e ben retribuita nel mondo del lavoro, diventa ancora più importante, così come diventa più pesante sbagliare questa scelta.

 

Conclusioni

Al termine di questa riflessione possiamo trarre alcune conclusioni. L’orientamento alla fine delle scuole superiori assume, almeno potenzialmente, una rilevanza sempre più centrale per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, con riflessi di natura economica, occupazionale e sociale. Alla luce di questa importanza sarebbe auspicabile una revisione della sua organizzazione, prevedendo l’istituzione di un vero e proprio programma nazionale (oggi invece le attività di orientamento dipendono dall’attitudine dei singoli insegnanti) a cui siano dedicate ore settimanali nel piano di studi dell’ultimo e del penultimo anno di scuola (il focus dell’anno terminale di studi dovrebbe divenire l’orientamento, non più l’esame di maturità, da ripensare). Questo programma, a differenza dell’approccio attuale che concepisce l’orientamento (almeno nei licei) esclusivamente come orientamento universitario, dovrebbe aprire le attività di orientamento anche agli ITS e al contributo delle imprese del territorio, per favorire un ingresso dei giovani nel mondo del lavoro più rapido e proficuo, contribuendo a superare il mismatch tra competenze dei ragazzi e competenze richieste dalle aziende.

Riprenderemo questi spunti alla tavola rotonda del 14 marzo dedicata all’orientamento organizzata dall’Istituto Mattei di Rho, un’iniziativa che ha il pregio di mettere finalmente allo stesso tavolo insegnanti, professionisti ed imprenditori.